Era quasi un anno...

Loch '90 - '91 - Speleologia in Altopiano

Era quasi un anno che un incubo mi assillava continuamente: dovevamo tornare in quella grotta. E si, un'atmosfera quasi arcana mi avvolgeva tanto che ormai anche le mie notti erano turbate da estenuanti viaggi nel vuoto più profondo. Ecco, quel filo impalpabile di aria sarebbe stato la nostra guida; su quella finestra a metà pozzo lo avremmo certamente trovato ad aspettarci, prodigo di indicazioni, ma anche tremendamente determinato a riavvolgersi qualora non fosse stato debitamente decifrato il suo messaggio. E' da qui che partiamo per la nostra fantastica avventura. I pozzi, i meandri e i saloni sono qualcosa di maestoso, indubbiamente i più belli mai visti; fatiche passate e bagni subiti sono ben presto dimenticati, come coperti da un velo misterioso, forse a farci credere che tutto cominci da lì, oltre quella finestra. Il nostro è un vagare quasi dantesco; nelle profonde 'Malebolge" ci muoviamo come anime dannate in un frenetico andare, ora in spazi infiniti, ora in meandri tortuosi.

Ad un tratto un sordo fragore ci scuote: è ancora lontano ed il nostro procedere si fa più cauto. Man mano che ci avviciniamo sfuma lentamente quello che abbiamo ammirato finora. Il rumore ci prende, penetra insistentemente in noi, un fremito percorre i nostri corpi, ma un filo di luce già mi avvolge. Il fragore, ancora per un attimo, appare nitido e preciso: è una c a s c a t a ! Sobbalzo. Tutto adesso comincia a diventare più vero. La luce della luna che filtra attraverso la finestra disegna strane ombre nella mia stanza. Mi siedo sul letto e, passando una mano fra i capelli, cerco di mettere un po' di ordine nei miei pensieri. Ormai non è già più un sogno. La conferma mi viene dalla abat-jour che non è la luce ad acetilene e mi permette di constatare che non ho addosso la vecchia "marbach" intrisa di fango. Anche il suono della sveglia mi riporta alla realtà quotidiana di un giorno come altri che affronterò più stanco del solito.

Passa un po' di tempo e finalmente, in una fredda serata d'autunno inoltrato, ci troviamo davvero all'imbocco della grotta a ripetere movimenti e gesti a noi ormai familiari, simboli inconsci di una ritualità quasi propiziatoria.

Scendiamo. Pozzi, meandri e laghi già percorsi nelle precedenti esplorazioni per noi ora quasi non esistono. Puntiamo decisi verso quella che, così magica ed invitante, è una finestra aperta su mondi ancora sconosciuti. Quel filo invisibile d'aria ora si concretizza in una corda alla quale affidiamo le nostre attese. Il rumore del trapano, quello secco e deciso del martello che aggiusta gli ultimi spit, il tintinnio dei moschettoni, tutto è una musica, quasi una sinfonia, degna colonna sonora alla scena che più volte abbiamo provato sul copione e che ora stiamo vivendo nella realtà. Man mano che si procede questo suono armonioso si confonde, si unisce ad altri suoni. Nell'ampio salone dove nel frattempo siamo giunti, uno di noi si gira di scatto ed indica con la mano un punto preciso nel buio. Cautamente procediamo in quella direzione e mentre alle nostre spalle le tenebre ritornano padrone assolute, davanti a noi le fiammelle dei nostri caschi si uniscono e mettono a fuoco quello che si rivelerà essere un meandro. Il rumore si fa ora più forte ed insistente, è quasi un frastuono. Superiamo la curva ad esse e ci troviamo improvvisamente testimoni di qualcosa di grandioso. Le nostre facce sono sbiancate, le gocce di sudore, scendendo, solcano i visi sporchi di fango, gli sguardi si incrociano. Un alone di vapore ci avvolge come in un silenzioso abbraccio: è l'atmosfera ideale per gridare all'unisono: "è lei, la C A S C A T A !".

A questo punto non c'è nemmeno bisogno di chiederci se tutto questo sia sogno o realtà, basti pensare che sopra di noi ci sono quattrocento metri di OBELIX: tanti infatti ne dovremo ripercorrere prima di poter dire: " e quindi uscimmo a riveder le stelle".

S. Ronzani