Un po’ di storia : l’antica zona industriale di Gallio

A 10 minuti a piedi dal centro di Gallio, si trovano i ruderi dell’antica contrada Covola (Kuvela). Fino alla distruzione avvenuta durante la I^ Guerra Mondiale, essa costituiva quella che oggi chiameremmo la “zona industriale” del paese.

Seduti vicino alla sorgente, chiudiamo gli occhi e proviamo a fare un viaggio nel passato e … a poco a poco … assieme al suono ora cristallino, ora potente dell’acqua, cominciamo ad udire il rumore incessante delle ruote che girano, delle teste ferrate che battono i mortai, richiami di uomini, vociare di bambini, canti di donne …

Le case della contrada erano per lo più costruite su terrazzi lungo il ripido pendìo, in fila a fianco della canaletta artificiale (gora) che deviava l’acqua dal torrente per muovere le ruote degli opifici.

Erano otto edifici in pietra a vista con scarso intonaco e avevano da due a quattro piani. Alcuni avevano al piano superiore l’abitazione, altri erano state costruiti appositamente per svolgere il lavoro. I tetti acuminati, a due falde, erano coperti di scandole. Vicino alla sorgente c’era una doppia fila di lavatoi e, poco lontano, una piccola stalla con fienile.

L’abbondanza d’acqua per muovere le ruote idrauliche, l’estensione dei boschi circostanti e la vicinanza con l’antica via della Val Frenzela che conduceva a Valstagna e al Fiume Brenta, ha fatto sì che nel corso dei secoli vi si sviluppassero numerose attività artigianali o paleoindustriali. Altri opifici si trovavano ancora più a valle, nella contrada Ronchi di Sotto.

Quanto indietro nel tempo bisogna andare per trovare i mulini e gli abitanti della Covola?

La prima fonte scritta finora trovata che documenta l’esistenza degli opifici è del 1598, ma è pressochè certo che questi ci fossero già da molto tempo. Infatti l’utilizzo del mulino ad acqua, ovvero dell’energia idraulica in grado di far funzionare gli ingranaggi di un meccanismo, si diffuse nell’arco alpino durante il Medioevo.

Che attività venivano svolte in questi antichi opifici?

E’ soprattutto dagli scritti di numerosi storici e viaggiatori dell’800 e dai dati ricavati dai Catasti storici austriaco ed italiano (Archivio di Stato) che sappiamo che nella valle vi erano mulini da grano, pile da orzo, folloni o gualchiere da mezzalana, pestascorze e seghe da legname.

Alcune di queste sono parole strane, che non si sentono quasi più.

La Valle della Covola

La macinazione dei cereali era un’ attività legata al fabbisogno familiare che continuò a funzionare, non senza interruzione, fino al 1950. Fino ai primi decenni del ‘900, i principali cereali coltivati nei campetti dell’altopiano erano avena, orzo, frumento e segale.

Come funzionava un mulino da grano ad acqua?

La vita del mulino iniziava dalla presa, un canale diagonale munito di saracinesca, attraverso il quale l’acqua del torrente veniva deviata in un canale in pietra detto gora, che lambiva gli opifici e portava l’acqua alla doccia, un canale in legno dal quale il getto cadeva sulla ruota, innescando il movimento di rotazione.

La doccia era collegata all’interno del mulino ad una corda o ad una catena legata ad un gancio. Togliendola dal gancio veniva spostata, non faceva più cadere l’acqua sulla ruota e quindi il mulino si fermava.

La ruota idraulica era una grande ruota in legno di diametro di 2.50 - 6 metri. Alla Covola c’erano ruote del tipo a cassette, di diametro ridotto. La ruota veniva colpita dall’alto dal getto d’acqua della doccia e per girare sfruttava il peso dell’acqua che riempiva le vaschette.

La rotazione della ruota è possibile anche con poca acqua poiché il movimento è assicurato dalla forza d’inerzia prodotta dal peso delle vaschette piene d’acqua, oltre che dalla forza con cui l’acqua precipita nelle vaschette stesse. La potenza del mulino è quindi data dall’altezza del salto e dalla quantità d’acqua.

L’asse attorno al quale girava la ruota è detto fuso: un grosso tronco che entrava nel mulino attraverso un foro nel muro.

Il fuso, girando, muoveva il lubecchio e la lanterna. Il lubecchio era una ruota dentata in legno (di solito con 60 denti) posta ortogonalmente al fuso.

La lanterna era una ruota a forma di gabbia rotonda, costituita da pioli in legno (di solito 10) disposti verticalmente in cerchio e fissati alle estremità da due piatti di legno circolari.

Quando il lubecchio girava i suoi denti andavano ad inserirsi tra i pioli della lanterna facendola girare e trasformando così il movimento da verticale ad orizzontale ed inoltre moltiplicando i giri delle macine rispetto ai giri della ruota (con 60 a 10, mentre il lubecchio fa un giro, la lanterna ne fa sei).

Lanterna e lubecchio

Questi ingranaggi erano disposti sotto il castello, un robusto ponte o soppalco in legno che sosteneva le macine.

Attraverso la lanterna e il castello passava un palo di legno verticale, labronzina del girello, che si infilava tra le macine e terminava con un pezzo di ferro a forma di farfalla detto nottola.

Le macine o palmenti, erano due pietre rotonde che macinavano i cereali (da cui il detto “mangiare a quattro palmenti”). La macina superiore mobile ruotava su quella inferiore fissa per mezzo della bronzina del girello. Le due facce contrapposte erano quella superiore concava, quella inferiore convessa. Avevano delle scanalature a raggiera che servivano a rendere più ruvida la superficie ed erano avvolte da una cassa in legno dalla quale, attraverso un’ apertura a canaletta, fuoriusciva la farina.

Sopra le macine si trovava la tramoggia, una cassa in legno a forma di tronco di cono rovesciato. Vi venivano gettati i chicchi che poi uscivano sotto e, attraverso un piccolo canale inclinato in legno detto tafferìa, andavano a finire tra le macine.

All’interno della tramoggia, in mezzo al grano da macinare, c’era un’assicella collegata all’esterno da una corda alla cui estremità era legato un campanello. Quando il grano stava per finire, l’assicella si alzava e il campanello suonava, avvisando il mugnaio che era necessario ricaricare la tramoggia. Molti mulini funzionavano anche di notte e se le macine giravano a vuoto, non solo si rovinavano, ma le scintille provocate dallo sfregamento delle pietre avrebbe potuto causare un incendio.

La farina macinata finiva nel buratto, un cilindro orizzontale avvolto con tessuto con trama di diversa grossezza, che fungeva da setaccio. La farina setacciata, più o meno grossa, cadeva poi nel sottostante cassone di legno a scomparti. La crusca invece, costituita dalle bucce dei chicchi di grano, cadeva in un cassone laterale.

Un’ altra attività legata al fabbisogno familiare era la pilatura ovvero il procedimento che serve a liberare i chicchi (cariossidi) di orzo e miglio dalle loro bucce (glumelle) che non sono digeribili per l’uomo. Nell’800 erano in attività alla Covola una ventina di pile da orzo che, in ragione dell’uguale meccanismo, servivano anche per pestare la corteccia ed il tabacco.

La macchina pila - orzo, chiamata anche pestino, poteva essere di due tipi: a pestelli o, più di rado, a mole.

Il pestino a pestelli

I pestini erano formati da una base in pietra di forma parallelopipeda di notevoli dimensioni, entro la quale erano praticati due, tre, quattro, anche cinque fori, a forma di olla, che contenevano ciascuno uno staio di cariossidi.

All’esterno delle due facce minori, trovavano sede due montanti verticali in legno. Essi erano collegati tra loro da due traverse orizzontali, parallele e distanziate, entro cui erano praticati dei fori a sezione quadra, in eguale numero delle olle.

Attraverso questi fori scorrevano i pestelli in legno con la parte terminale in ferro a forma di cono tronco. 

Ogni pestello presentava in basso la palmola, ovvero una sorta di sperone orizzontale modellato inferiormente a curva.

I pestelli venivano mossi dalla ruota idraulica attraverso il fuso che era dotato, in corrispondenza delle palmole, di contropalmole a paletta. Erano queste ultime che, per rotazione del fuso, si adattavano alle palmole sollevando i pestelli e poi, sganciandosi, lasciandoli ricadere per proprio peso.

In tal modo, per un pestino a due olle, mentre si alzava il primo pestello, il secondo si abbassava; per un pestino a tre olle, mentre il primo e il terzo si alzavano, il secondo si abbassava; e così via.

Le teste ferrate penetravano nelle olle senza toccare il fondo e schiacciare i chicchi, ma solo agitandoli o sbattendoli contro la parete interna delle olle perché si sbucciassero. Per evitare la fuoriuscita dei chicchi, le teste ferrate dei pestelli erano munite di dischi forati in vimini.

Il pestino a mole

Era una vasca in pietra, circolare ed a forma di conca e presentava la parte centrale a colonnetta. Essa poggiava sul castello in legno, entro il quale era collocato un ingranaggio ortogonale a lubecchi. L’albero verticale del lubecchio posto orizzontalmente, passando attraverso la colonnetta, si infilava, con il suo mozzo, in una boccola incassata nel soffitto. Sopra la bocca della colonnetta, l’albero era attraversato da un asse orizzontale regolabile che sorreggeva alle estremità due dischi in pietra arrotondati (mole).

Riempiendo di orzo o miglio il fondo della vasca e mettendo in moto il meccanismo, le due mole venivano fatte girare. Ortogonalmente all’asse delle due mole, una traversa in legno sorreggeva alle estremità uno o due raschiatoiin ferro, che servivano a spostare la massa dei grani ed a pulire la superficie interna della vasca. Di conseguenza, le cariossidi si sfregavano le une contro le altre e sbattevano contro le pareti ruvide della vasca, liberandosi un pò alla volta dalle glumelle.

Il sistema dei lubecchi, ad uguale numero di denti, garantiva lentezza e regolarità di rimescolìo.

Pestino a pestelli

Follare o gualcare significa invece rendere i panni e le pelli morbide. É voce di derivazione tessile, infatti il termine follare deriva dal latino volgare fullare(calcare, specificatamente la lana) e ha come sinonimo il termine gualcare che deriva dal longobardo walkan (rotolare). Questa operazione veniva eseguita battendo i panni, riposti nei mortai, con pestelli di legno. Anticamente la stessa operazione serviva a rendere le pelli morbide e granite e perciò è possibile che alla Covola questa attività fosse, almeno in parte, legata alle concerìe di Gallio.

L’attività principale era però quella di pestare le scorze, ovvero di ridurre in polvere la corteccia di Abete bianco per ricavare il tannino, utilizzato per rendere imputrescibili le pelli, anello fondamentale della “catena produttiva” della concia che si svolgeva soprattutto nella Contrada Fontana, presso l’altra copiosa sorgente a nord di Gallio, il Pach.

Quest’ultima località ancora oggi viene comunemente chiamata “le garberìe”, voce di origine tedesca che significa appunto conceria (gerberei).

Per gli abitanti dell’Altopiano che erano legnaioli, carbonai, pastori e cacciatori, lavorare le pelli era da sempre una conseguenza naturale dell’ambiente in cui vivevano: quantità di velli e manti di animali che allevavano, acque disponibili, grande quantità di materiale tannante nella vegetazione boschiva.

Il principio attivo responsabile del processo di concia è appunto il tannino e tale sostanza si trova , a seconda di alcuni tipi di alberi, nella corteccia, nelle foglie, nel legno o nei frutti.

Il materiale base dei conciapelli di Gallio era la corteccia di abete bianco (Abies alba), detto tanna nell’idioma cimbro. Ha un contenuto tannico di circa il 12%, discrete quantità di sostanze fermentabili e fornisce cuoi compatti di colore nocciola chiaro e buon odore resinoso.

La corteccia veniva accantonata fin dalla primavera, in concomitanza con la ripresa del taglio del legname nei boschi. Dopo la sramatura, venivano scortecciati i tronchi con un apposito coltello, ottenendo dei larghi fogli. Questi venivano accuratamente accatastati in modo che si seccassero senza arricciarsi. Per mezzo di slitti venivano poi portati a valle, in paese e poi alla Covola per la macinazione.

Qui la corteccia veniva prima spezzettata e poi macinata in piccoli mortai per mezzo di magli di legno armati di ferro messi in moto dalla ruota idraulica: meccanismi che non erano diversi dalle macchine pila-orzo a pestelli e dai mulini da follo tant’è che dalle fonti scritte sappiamo che gli stessi mortai servivano sia come pile d’orzo, sia per pestare le scorze, il tabacco e altre sostanze.

Le scorze, dopo essere state macinate, venivano portate alle concerìe dove, impastate con acqua, venivano poste nei tini assieme alle pelli da conciare.

L’uso massiccio delle sostanze tannanti vegetali finì con l’avvento della concia al cromo, introdotta nella seconda metà dell’800.

La concia come attività industriale si era diffusa, in particolare a Gallio, soprattutto a partire dal XV sec., quando la Reggenza dei 7 Comuni fece atto di dedizione alla Serenissima Repubblica Veneta. Fu proprio Venezia a recuperare il patrimonio di antiche conoscenze provenienti dall’Oriente, utilizzandole in nuove forme e con rinnovato spirito, tanto che dai trattati commerciali conclusi con il Sultano d’Egitto, con il re d’Armenia e con il Sultano di Tripoli a cavallo tra l’XI ed il XII sec., si riscontrava già un largo traffico di pelli e pellicce.

Primi '900: gli opifici visti da est

Nel 1454, all’atto della fondazione della Fraternidade de li pelizari de la Terra de Bassan, molti di loro erano originari di Gallio. Fra questi il maestro Berto da Galio, padre del celebre Jacopo da Ponte e nonno di Francesco da Ponte il Vecchio. Quest’ultimo artista ultimò nel 1547 la Pala della Santissima Trinità, custodita a Bassano nell’omonima Chiesa, nella quale rappresentò alcuni aspetti dell’antica professione familiare.

Nel 1771 c’erano a Gallio 10 fabbriche di conciapelli i quali acquistavano a Venezia le cuoja bovine secche e fresche provenienti da Smirne, Costantinopoli, Alessandria. I pellami, oltre a soddisfare la domanda locale, venivano venduti nei mercati del vicentino, padovano e triestino.

Ancora nel 1892, su un totale di 26 concerie esistenti nella provincia di Vicenza, Gallio ne contava 8, le vasche e i tini per la concia erano 50, gli addetti 44. La concia quindi rappresentava un importante ramo dell’industria e del commercio dell’Altopiano.

Ancora negli anni precedenti la I^ Guerra Mondiale, venivano annualmente allestite circa 30.000 pelli. Muli carichi di pelli facevano la spola con la stazione ferroviaria di Bassano dirette poi a Vicenza, Venezia, Milano, Bologna e altrove.

E’ interessante notare che la chiesa parrocchiale di Gallio è dedicata a San Bartolomeo apostolo. Questo martire della cristianità venne scorticato vivo e crocifisso e per questo venne scelto nel Medioevo da molte corporazioni europee di conciapelli come loro protettore, venendo di solito rappresentato da pittori e scultori con la pelle scuoiata sulle spalle. 

Nel 1915, in seguito alle necessità di guerra ed al crescente fabbisogno di risorse idriche, l’Ufficio del Genio Militare decise di costruire un acquedotto che utilizzasse l’acqua perenne della sorgente Covola. A monte dei mulini, a pochi metri dalla sorgente, venne edificata l’officina di sollevamento e furono realizzate due condutture per spingere l’acqua in alto, fino al serbatoio costruito sul vicino Monte Sisemol. Da qui, un’altra conduttura scendeva fino alle contrade Leghen e Stellar e raggiungeva la zona di Asiago per poi congiungersi a Canove con l’acquedotto della sorgente Renzola. Da Stellar, un’altra diramazione raggiungeva Bertigo e il Turcio.

Nel 1916 ebbe inizio la Strafexpedition austroungarica: il 18 maggio Gallio fu colpita dalle prime quattro granate, l’ultima delle quali cadde nei pressi della Covola. La popolazione dovette fuggire e iniziare il periodo di profugato in pianura (ad Albettone, vicino a Vicenza) che si sarebbe concluso quattro anni dopo.

Il conseguente ripiegamento della linea italiana causò la perdita delle sorgenti più copiose: Renzola, Marcesina e Covola. Contemporaneamente, il fabbisogno di acqua aumentò in modo impressionante per il numero di soldati che il Comando Supremo dislocò in breve tempo sull’Altopiano per arginare l’invasione.

In giugno, il Comando del Genio della I^ Armata costituì l’Ufficio Idrico che studiò il problema del rifornimento razionale di acqua e costruì numerosi acquedotti minori localizzati ai piedi dell’Altopiano.

Nel frattempo, la controffensiva italiana riuscì a far indietreggiare gli imperiali, rinsaldando le linee da Camporovere al Monte Zebio e quindi riconquistando anche la Covola. In soli tre giorni furono riparate le condutture danneggiate e sostituite le elettropompe con pompe azionate da motori a scoppio, rimettendo in azione l’acquedotto e le diramazioni comunicanti con quello proveniente dalla Renzola.

L'edificio militare

In luglio fu realizzata un'altra conduttura che dal Sisemol, alimentando un altro serbatoio in loc. Mosca, raggiungeva poi Campomezzavia e la Val Chiama. Con altre diramazioni fu raccordata la linea presso Asiago (S.M. Maddalena) con le zone di Granezza e Boscon. Fu così possibile sopprimere i rifornimenti dalla pianura e portare sull'Altopiano i luoghi di carico per autobotti e carri.

Soddisfatte le esigenze del momento, per assicurare l'approvvigionamento alle truppe anche nel caso in cui gli eventi bellici avessero causato l'aumento del fabbisogno, fino alla fine della guerra furono costruiti numerosi impianti di sollevamento e distribuzione dell'acqua e numerosi allacciamenti tra i diversi impianti.

Tra quelli realizzati nel territorio della VI^ Armata, si trovavano anche quelli serviti dalla sorgente Covola.

Per la realizzazione, manutenzione e funzionamento di questa vasta rete furono creati magazzini e officine a Thiene, Bassano, Marostica e Breganze. Ci fu bisogno di scorte di materiali, mezzi di trasporto e numeroso personale.

Il trasporto dell'acqua dalle prese maggiori fino ai reparti fu effettuato con mezzi a trazione animale (autobotti, autocarri e carri), ghirbe portate a basto e marmitte da campo portate a spalla.

Per disciplinare il movimento di veicoli, animali e uomini nei pressi delle prese maggiori, situate in zone spesso impervie, furono realizzati degli ampi piazzali.

La quantità d'acqua complessivamente erogata dalle prese maggiori e da 200 prese minori, fu sufficiente al fabbisogno delle truppe, all'abbeverata degli animali ed al funzionamento di 25 bagni.

Benché una buona parte della rete fosse stata interrata ad 1 metro di profondità, quasi giornalmente vi fu qualche tubazione colpita dal tiro nemico. Nonostante i danneggiamenti fu possibile assicurare sempre ed in qualunque luogo la continuità del rifornimento.

L'officina di sollevamento della Covola era dotata di pompe a stantuffo e motori a scoppio. Le linee e diramazioni servite dall'acqua della sorgente mediante serbatoi e officine di sollevamento erano:

  • Sisemol - Mosca - Campomezzavia - Val Chiama;
  • Sisemol - Ronco del Carbon;
  • Sisemol - S.M. Maddalena (Asiago) - Bivio S.Sisto - Prìa dell'Acqua - Granezza;
  • Sisemol - S.M. Maddalena - Coda - Bivio Italiano (Canove) - Cesuna - Campiello;
  • Rotz (Gallio) - Val Giardini - Croce di S.Antonio (zona Monte Zebio).

Alla fine della guerra, la valle della Covola si presentava come un cumulo di macerie: solo l'acquedotto militare, costruito in cemento armato e potenziato nel frattempo, era rimasto in piedi. Gli antichi mulini, rasi al suolo, furono abbandonati e la vita riprese poi solamente ai lavatoi, nei pressi della sorgente.

L'edificio militare venne utilizzato dal 1933 come mulino per la macinazione dei cereali dalla famiglia Segafredo Duri. Nel 1950 venne meno anche questa attività, a causa del progressivo abbandono delle tradizionali coltivazioni agricole e quindi della drastica diminuzione del prodotto da macinare.

Nel contempo, la doppia fila di lavatoi venne utilizzata dalle donne di Gallio per lavare i panni (soprattutto per sciacquarli dopo aver "fatto la lissia"), soprattutto d'inverno quando le fontane del paese si gelavano, mentre l'acqua della Covola manteneva una temperatura costante ed era tiepida. Con l'arrivo della fornitura d'acqua direttamente nelle case (anni '50), anche i lavatoi furono abbandonati.

Lavandaie

Da quel momento in poi la Valle cadde nell’oblìo fino al 1998 quando, dopo decenni di abbandono, sono iniziati i lavori nell'ambito di un progetto generale di recupero e valorizzazione della Val Frenzela.

Fino ad oggi il Comune di gallio, usufruendo del cofinanziamento di diversi Programmi comunitari europei, ha realizzato la sistemazione della mulattiera comunale, dell'area della sorgente e dell'edificio militare. Sono stati riportati alla luce i ruderi dei primi sei opifici, nascosti da materiale di crollo, terra e vegetazione. É stato inoltre ricostruito come in origine l'opificio più a valle, il pestarino dei Prott: ora può essere visitato completo della pila da orzo e del pestino a pestelli, funzionanti grazie alla ruota idraulica.

I lavori hanno dato il via alla riscoperta dell’antica contrada da parte dei galliesi stessi, di visitatori e turisti, alla realizzazione di un opuscolo turistico, di visite guidate e di una videocassetta “La Covola, ricordi e testimonianze” (realizzata in collaborazione con la nostra Videoloch).

L’edificio militare è sede di una piccola mostra permanente e della Stazione di monitoraggio attivata dal nostro Gruppo.

La Covola costituisce altresì uno dei maggiori itinerari del Museo dell'Acqua di Asiago - Altopiano dei 7 Comuni.

Il nostro viaggio nella Storia è finito, per ora. Stiamo cercando altre voci dimenticate, notizie che vengono da lontano. Nel frattempo, guardiamo questi sassi, ascoltiamo l’acqua, magari per un attimo, con occhi diversi.

Per capire il presente e pensare al futuro … bisogna conoscere il passato.

Il pestarino dei Prott ricostruito nel 2004

Per saperne di più:

  • Francesco Caldogno, Relazione delle Alpi Vicentine e de' passi e popoli loro, 1598
  • Padre Gaetano Maccà, Storia del Territorio Vicentino, 1816
  • Ottone Brentari, Guida storico - alpina di Bassano - Sette Comuni, 1885
  • Bernardino Frescura, L'Altopiano dei Sette Comuni Vicentini, 1894
  • Aristide Baragiola, La casa villereccia delle Colonie Tedesche Veneto - Tridentine, 1908
  • Regio Magistrato alle Acque, Sull'idrografia carsica dell'Altopiano dei Sette Comuni, Venezia 1911
  • Servizio Metereologico del Comando Supremo dell'Esercito Italiano, Clima e acque dell'Altopiano dei Sette Comuni, 1916
  • Comando Generale del Genio, Gli impianti idrici dell'Altopiano dei Sette Comuni, Aprile 1919
  • Fernando Zampiva, L'arte della concia - ad Arzignano, nel vicentino, nel Veneto e in Italia dalle origini ai giorni nostri, Ed. Egida, Vicenza 1997
  • Giuseppe Sebesta, La via dei mulini – dall'esperienza della mietitura all'arte di macinare, Museo degli usi e costumi della Gente Trentina, 1976
  • Marc Bloch, Lavoro e tecnica nel Medioevo, Laterza, Bari 1987
  • A cura di Piera Pancheri, Farina del mio sacco, Museo degli usi e costumi della Gente Trentina, San Michele all'Adige 1997
  • Archivio di Stato di Bassano del Grappa
  • Scuolaofficina, periodico di cultura tecnica del Museo del Patrimonio industriale di Bologna
  • Claudio Grandis, I mulini ad acqua dei Colli Euganei, Ed. Il Prato, Padova 2001
  • Bernardo e Domenico Finco, Per non dimenticare, Bassano del Grappa 1985
  • AA.VV., Mestieri e saperi fra città e territorio, Vicenza 1999